La domanda e la risposta
Se qualcuno mi chiedesse “quando ti sei accorta di essere malata?”, risponderei che lo sono sempre stata, solo che non lo sapevo! Dal febbraio 2011, cioè dal ricovero al S. Orsola-Malpighi, ho ripercorso a ritroso tutta la mia vita migliaia e migliaia di volte per cercare di dare una risposta a quella domanda, ma in realtà non ce n’è una, ho trovato soltanto tanti indizi e poche certezze.
Da quando ho memoria ho sempre fatto sport da ragazzina; ne ho provati tanti: piscina, pallavolo, pallacanestro… Fino a quando ho trovato quello che mi piaceva veramente: il tennis.
L’ho praticato per tanti anni, anche a livello agonistico, senza però mai avere grandi risultati.
Ed ecco il primo indizio: nello sport ero una “schiappa”, ero sempre l’ultima. I miei compagni vincevano coppe e medaglie, io giusto la targa ricordo; nei tornei a squadre loro erano sempre la prima scelta mentre io sempre la riserva delle riserve. Per non parlare poi dell’ora di educazione fisica a scuola: “Dodici giri del piazzale” ci dicevano… tutti finivano l’ultimo giro e io ero ancora a metà perché mi nascondevo dietro agli alberi appena potevo per riprendere fiato.
Continuo a credere però che uno degli indizi più rilevanti per scoprire l’inizio della mia malattia sia stato quando, all’ennesimo rinnovo annuale del certificato agonistico, il dottore mi disse che era meglio fare qualche esame in più prima di confermare la mia buona salute, perché c’era qualcosa di anomalo che bisognava approfondire. Mi ricordo che i miei genitori mi hanno portata da tanti dottori e mi hanno fatto fare mille strani esami in quel periodo, ma nessuno è stato in grado di dire nulla di più specifico di questo: “La ragazzina sta bene, si tratta solo di un piccolo soffio al cuore che sicuramente con la crescita sparirà”. Sì, infatti, è “SPARITO”, ma perché nel frattempo avevo smesso di giocare a tennis: essendo ormai un’adolescente, le priorità erano decisamente cambiate… chi se ne frega dello sport, a me interessavano gli amici, i giri in motorino, uscire a divertirmi e tutte le cose che fa una ragazza di 15 anni. Così il mio soffio al cuore è rimasto lì nell’oblio, fin quasi a convincermi che quei dottori in fin dei conti avevano avuto ragione.
Crescendo gli indizi si sono fatti sempre più labili e indistinti, ma la giornata di una giovane donna con tanta voglia di vivere e di fare, frettolosa di crescere e di sperimentare, molto spesso si scontrava con i primi subdoli sintomi della malattia.
“SEI PIGRA” mi dicevano “MUOVITI, ESCI, FAI QUALCOSA, NON STARE SEMPRE SEDUTA”.
Non sapevano che ero eternamente stanca, di quella stanchezza che non ti abbandona mai, nemmeno dopo aver riposato.
“ANDIAMO A FARE UN’ESCURSIONE IN MONTAGNA”. “DAI, SARA VIENI A FARE DUE TIRI A BEACH VOLLEY”. Rispondevo quasi sempre che non me la sentivo: “ANDATE VOI, IO RESTO QUI A GUARDARVI” e sentivo rispondermi “OH, MA CHE ASOCIALE CHE SEI DIVENTATA”.
I miei amici non sapevano che dietro a quel rifiuto c’era la sofferenza di una ragazza che avrebbe davvero tanto voluto partecipare, ma che per paura di non farcela o per la vergogna di dover dire “aspettate, non ce la faccio, devo riprendere fiato” ha rinunciato a tante esperienze.
“CHE FAI PRENDI L’ASCENSORE: SONO DUE SCALE… NON CE LA FAI PERCHE SEI IN SOVRAPPESO E NON TI MUOVI… ISCRIVITI IN PALESTRA, POI VEDI COME FAI LE SCALE!!!”
Non ero grassa ma mi sono iscritta ugualmente in palestra e ho provato a ricominciare a giocare a tennis, ma nonostante tutto il mio impegno e tutti i miei sforzi il fiato era sempre più corto e le scale erano sempre più difficili da fare. Infatti in quel periodo è arrivato l’indizio più eclatante e più sottovalutato di tutti: sono svenuta in mezzo al campo da tennis a soli pochi minuti dall’inizio del riscaldamento. Ma io ho voluto continuare, perché non potevo dire a mio fratello, con cui stavo palleggiando, che non ce la facevo; non potevo fermarmi, d’altronde ero lì per perdere qualche chilo, probabilmente ero soltanto fuori allenamento, probabilmente le cose sarebbero migliorate con l’impegno e la buona volontà, sicuramente non era niente di serio. Ed è successo ancora in vacanza al mare, in un giorno di vento, in una spiaggia meravigliosa della Sardegna con onde giganti… la mia spensieratezza facendo il bagno tra i cavalloni, ridendo e scherzando con il mio fidanzato mentre le onde ci riportavano a riva è qualcosa di inquietante.
“MI GIRA LA TESTA STO PER SVENIRE” credo di aver detto con un filo di voce a Giovanni.
Mi ricordo solo che mi ha stretta forte, buio, voci lontane, sconosciuti intorno a me e le sirene dell’ambulanza chiamata prontamente dal bagnino di turno. Rido pensando a quando mi hanno dato acqua e zucchero, ma col senno di poi rabbrividisco rivivendo quei momenti e pensando all’incoscienza e al pericolo che ho corso; ringrazio ancora la mia buona stella per il fatto di essermi trovata vicino alla riva e di aver avuto la forza e la lucidità di avvertire il mio, da lì a poco, futuro marito. Nessuno poteva sapere o credere che quell’estate avrei sfidato la sorte e che quello che sembrava un colpo di calore tipico di un bagnante sprovveduto si sarebbe poi rivelato uno dei sintomi più importanti della mia malattia.
Ormai avevo trovato tanti piccoli stratagemmi per far sembrare tutto normale: non appena mi si oscurava la vista e cominciavano a fischiarmi le orecchie, per esempio camminando in salita, facevo finta di ammirare il panorama per poter recuperare; se c’erano delle vetrine mi fermavo dicendo: “Uh guarda che bello quello”, anche se in realtà era solo una scusa per prendere tempo e avere qualche minuto per far diminuire i battiti del cuore che martellava dentro al petto, per acchiappare ogni singola molecola di ossigeno per non svenire, in attesa che il fischio ormai tanto familiare diminuisse, che tutto intorno a me ritornasse meno buio e che la terra sotto ai piedi smettesse di girare.
Qualcuno potrebbe chiedermi perché, arrivata a quel punto, non mi fossi ancora rivolta a un dottore. Sì, l’avevo fatto, l’avevo fatto anche prima di scoprire la malattia, quando ormai non mi liberavo più da una tosse secca e insistente, anche quando tossivo sangue, ci sono stata dal medico, che diceva: “Non è possibile che tu tossisca sangue, non è possibile che non riesca a fare le scale o a correre, hai solo 27 anni! Fatti queste 12 punture di antibiotici, vedrai che starai meglio”. Sono stata anche da uno pneumologo, che mi ha liquidata dicendo che la saturazione era al 100% quindi andava tutto bene! Ma non andava tutto bene, non sarei stata meglio, ormai non riuscivo più nemmeno a fare le cose di tutti i giorni: rifare il letto era impossibile, le faccende di casa erano sempre più faticose, ma continuavo e cercavo di resistere. Fino a che un giorno sono uscita per fare una commissione e ho sentito un forte formicolio al braccio e alla faccia, tanto da non potermi più muovere; spaventata ho chiamato mio marito chiedendogli di venirmi a prendere perché non ce l’avrei fatta a tornare da sola a casa.
Per la serie “non tutti i mali vengono per nuocere”, mio marito mi ha ordinato di farmi controllare perché la situazione non era più sostenibile; infatti dopo qualche giorno mi sono ritrovata ricoverata al reparto di neurologia a Macerata per le verifiche del caso. Appena arrivata l’infermiera di turno ha effettuato un elettrocardiogramma, ma poco dopo è rientrata in stanza affermando di aver sbagliato a posizionare gli elettrodi, i valori non erano corretti e bisognava rifare l’esame. Due giorni dopo la diagnosi, emicrania con aura, ma non sono tornata a casa come mi aspettavo: gli elettrodi erano stati inseriti al posto giusto, era il mio cuore che faceva i capricci. Mi hanno spedita in cardiologia e poi addirittura all’UTIC (Unità di Terapia Intensiva Coronarica). Mi hanno rigirata come un calzino, ho fatto mille esami e mille test, ma nessun dottore si sbilanciava, solo accenni e mezze parole, e io cominciavo a preoccuparmi seriamente perché i giorni passavano, ma le informazioni erano frammentarie e poco chiare, ogni giorno sentivo termini medici, ma nessuno si preoccupava di farmi capire cosa mi stava succedendo. Fino a quando una dottoressa mi ha informata che dovevano effettuare un test un po’ fastidioso, ma necessario: il cateterismo cardiaco destro. Ho acconsentito, logicamente, volevo assolutamente sapere cosa c’era che non andava in me! La risposta è arrivata subito: “IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE, DOBBIAMO TRASFERIRTI A BOLOGNA, DOVE TI CURERANNO: IL PROF. GALIÈ È UN LUMINARE IN QUESTO CAMPO”.
Quando ho realizzato di cosa si trattava sono scoppiata in un pianto disperato, non ci volevo e non ci potevo credere, non mi sembrava possibile, sì avevo poco fiato, ma non ero malata, ero ancora troppo giovane per ammalarmi, mi ero sposata da poco, avevo un marito, una casa e una vita davanti, non poteva essere vero, si dovevano essere sbagliati di sicuro! Dopo una notte passata a piangere con mia madre e mio marito, sconvolti, sono partita in ambulanza verso Bologna, ancora con gli occhi rossi dal pianto e dalla disperazione!
La prima notte al S. Orsola-Malpighi è stata un’odissea, avrò chiamato mille volte gli infermieri perché mi sentivo il cuore esplodere nel petto, batteva veloce e forte, non riuscivo a calmarmi! Per fortuna sono stati tutti gentili e comprensivi, nei giorni seguenti ho fatto tutti gli esami necessari, mi hanno spiegato tutto e mi hanno tranquillizzata.
Poco tempo dopo i dottori sono riusciti a capire la causa specifica della mia forma di ipertensione polmonare, che da idiopatica è stata riclassificata come di origine genetica: mia madre mi ha trasmesso il gene modificato. Anche a mio fratello è stato fatto il test del DNA per una verifica e per fortuna lui è sano come un pesce, ora ha una splendida figlia di 6 mesi a cui faccio da zia quando posso.
Sono passati quasi sette anni da quei giorni, sono ormai una donna consapevole di avere una malattia invalidante, ho appeso la racchetta e gli sci, non mi vergogno più se camminando mi devo fermare, perché ormai conosco il motivo del mio affanno. So di non poter avere figli e questa è una cosa ancora difficile da accettare, sebbene io sia convinta che la cosa più importante sia avere una famiglia serena, anche se ristretta, un marito che mi comprende e mi conforta anche nei momenti in cui tutto sembra impossibile da sostenere.
Ho quasi 36 anni ora; anche se ho dovuto aspettare quasi tutta una vita per capire di “essere diversa”… un piccolo gene, una minuzia che sta rendendo la mia vita un po’ più complicata del normale… Comunque vado avanti con grinta, affrontando i giorni che passano con gratitudine e riconoscenza verso coloro che mi amano e che riescono a sopportare i limiti che ho. E, soprattutto, vado avanti con speranza: speranza di poter continuare nonostante tutto ad essere stabile, di continuare a non peggiorare e di continuare a resistere.
Non so cosa la vita mi riserverà: confido nei medici del
S. Orsola-Malpighi, che si stanno prendendo cura di me con scrupolosità, professionalità e tanta tanta umanità. Ringrazio il fato o il destino, per chi ci crede, per quel piccolo malore avuto “grazie” al quale si sono messe in moto una serie di circostanze fortuite che mi hanno permesso di conoscere in modo inequivocabile la causa di tanto affanno. E soprattutto ringrazio i medici dell’ospedale di Macerata, che hanno avuto l’intuizione per fare la prima diagnosi e, cosa fondamentale, l’UMILTà di capire che Bologna sarebbe stata la mia unica possibilità di cura e di salvezza e che in quell’ospedale nelle Marche sicuramente non ci sarebbero stati i mezzi e le competenze adeguate per poter affrontare la malattia.
Sì, ho aspettato tanto, tanti medici avrebbero potuto scoprire qualcosa, indagare e approfondire il mio disagio nel corso delle tante visite ed esami fatti sia in adolescenza che prima del 2011 ma, consapevole di ciò, credo che questa sia la prerogativa di una malattia rara: essere poco conosciuta e quindi poco riconoscibile, in modo particolare in una ragazza nel fiore degli anni, in un’età in cui tutto sembra possibile. Perciò non biasimo nessuno, nemmeno me stessa per il fatto di non aver insistito nella ricerca di un perché, posso essere solo grata e felice della possibilità che mi è stata data di curarmi al meglio in un centro di eccellenza a cui devo tutto.
Quindi a questo punto non è più importante la domanda “da quanto tempo sei malata, quando ti sei accorta o quanto tempo hai impiegato a scoprire la malattia”, ma diventa essenziale la sola e unica risposta a quella domanda ed è l’unica possibile per andare avanti: ho l’ipertensione arteriosa polmonare di origine genetica (da quando sono nata), una malattia rara e invalidante con la quale dovrò confrontarmi per il resto della vita, ma grazie a “qualcuno e a qualcosa”, ora che ne sono consapevole, posso continuare ad esistere. GRAZIE.
di Sara Troiano