.. e miracolosamente non ho smesso di sognare
Ho 23 anni e convivo con l’ipertensione polmonare da quasi un anno e mezzo. Vivo a Cogoleto, in provincia di Genova. Ricordo che sin da bambina, io e i miei genitori andavamo in ospedale per fare dei controlli circa una volta al mese, controlli che sono stati una costante della mia infanzia e adolescenza, fino al mese di settembre del 2013.
Un dolore lancinante allo sterno mi lasciava senza fiato, con notti passate a dormire seduta perché il dolore mi impediva di stare sdraiata. Così decisi di farmi visitare da un cardiologo, il quale riscontrò un versamento pericardico. Posso dire che questo è stato l’inizio di una lunga salita di cui forse neanche ora intravedo la fine.
Nel dicembre dello stesso anno mi diagnosticarono anche una malattia autoimmune, il lupus eritematoso sistemico, il quale, mi ha così spiegato la reumatologa, fa sì che le cellule del mio corpo non si riconoscano fra loro e, chissà per quale motivo, vengono attaccate dal mio stesso organismo.
Da quel momento ho avuto un problema dietro l’altro. Nel frattempo tra alti e bassi e recidive pericarditi, mi diagnosticarono anche una trombosi venosa profonda alla gamba sinistra. Questo accadde nel maggio del 2014. Il mese successivo, dopo un normale controllo ecografico al cuore, mi mandarono d’urgenza al pronto soccorso per una sospetta embolia polmonare. Negativo, nessuna embolia – confermarono i medici e mi rispedirono a casa. Dopo qualche giorno di osservazione, ripresi la mia normale vita. Ma normale non è stata per lungo tempo.
Quell’anno sono stata in ferie con il mio fidanzato al mare e lì ho cominciato a capire che qualcosa stava lentamente cambiando nel mio corpo. Mi stancavo per molto poco, credendo che la mia stanchezza fosse dovuta al fatto che in vacanza avevamo visitato molti posti, camminando molto. Al rientro dalle ferie, con l’inizio dell’inverno, la situazione iniziò a peggiorare.
Un giorno ricordo di avere fatto di fretta le scale in discesa, neanche in salita, con il mio cucciolo di labrador in braccio, poiché stava per sporcare in casa. Arrivata in fondo ai gradini cominciai a sentire il cuore battere forte e il respiro mancare. Svenni e mi ripresi poco dopo. Il giorno seguente mi feci visitare dalla reumatologa per capire cosa fosse successo. Mi disse di non preoccuparmi, che sarebbe successo anche se non avessi avuto i problemi con la pericardite e una malattia autoimmune che poteva essere di diverso tipo, o un “lupetto” o un “lupo mannaro”… La mia era la seconda.
Uscii da quella stanzetta insoddisfatta, perché ero sempre più convinta che ci fosse qualcosa di anomalo in tutto questo: sentivo il mio corpo cedere e non capivo il motivo.
La reumatologa allora mi prenotò un ricovero presso un noto ospedale di Milano, nel reparto di reumatologia. Dopo un mese di ospedale mi confermarono la diagnosi di ipertensione polmonare di grado severo dovuta a una vasculite da Les.
In poche parole mi spiegarono che, a causa della mia malattia, il mio cuore si stava affaticando perché una delle due arterie polmonari era ristretta per un’infiammazione, derivata appunto, dal lupus.
“Benissimo, ora che abbiamo trovato una diagnosi mi cureranno e finalmente starò meglio!” pensai.
La cura prevedeva un ciclo mensile di ciclofosfamide, un farmaco chemioterapico che ha anche il compito di essere un immunosoppressore, e per questo avrebbe dovuto “tenere a bada” il mio lupus e far quindi regredire l’infiammazione. Questo farmaco però ha anche il brutto effetto collaterale di colpire una donna nel punto più vivo che esista, ossia le ovaie.
Per questo motivo in due ore mi hanno sottoposto a una scelta drammatica: cominciare subito la terapia che a 25 anni avrebbe potuto rendermi sterile oppure rimandare il tutto per sottoporsi a un intervento chirurgico che prevedeva l’asportazione e conservazione degli ovociti per poter procreare un domani. Per fare questo tipo di intervento occorre sottoporsi preventivamente anche a una terapia ormonale molto invasiva, che fa a pugni con il lupus.
Allora mi chiesi davanti a quale scelta mi avessero posto, se scelta effettivamente non ne avevo. Malgrado i danni che avrebbe potuto provocarmi, decisi di iniziare questa terapia, sempre più convinta che era solo per il mio bene e che sarei stata sicuramente meglio.
Passavano i mesi, il mio corpo era pieno di farmaci chemioterapici e cortisone a dosaggi stellari. Mi guardavo allo specchio e mi facevo quasi paura perché non mi sentivo più la Elisa che conoscevo. Non mi piacevo, ero scontrosa con tutti, ero in preda a sbalzi d’umore continui, al punto di aver compromesso anche la mia vita sociale. In un primo momento però notai un lieve miglioramento, mi sembrava di fare le scale con meno fatica e l’affanno era decisamente meno pesante.
Questa favola si interruppe purtroppo subito, poiché una mattina, mentre facevo la doccia, iniziai a tossire sputando anche del sangue. Subito fui presa dal panico, ovviamente corsi subito in ospedale dove mi dissero che avevo contratto una broncopolmonite: la ciclofosfamide, nel ruolo di immunosoppressore, riduce drasticamente le difese immunitarie. Mi feci dunque un’altra settimana di ricovero, rammaricata dal fatto che passassi più tempo in un letto d’ospedale piuttosto che a casa con la mia famiglia, dove avrei dovuto in realtà essere.
Con l’antibiotico guarii dalla broncopolmonite e potei tornare a casa. Incominciavo a pensare che forse non dovevo uscire, che forse era meglio indossare una mascherina per non prendermi nulla.
Così diedi il via a un’altra tappa della mia vita: quella dove non avevo la minima intenzione di uscire di casa, o di stare in luoghi affollati, per paura di ammalarmi. Non era una paura sana, era quasi un’ossessione, a livello maniacale. Se il mio ragazzo proponeva una cena fuori, a primo impatto rispondevo di sì. Poi cominciavo a pensare alla gente intorno a me e a quanta contaminazione sarei stata esposta. Per questo motivo finivo quasi sempre per non uscire più.
Intanto l’affanno per soli due scalini si era ripresentato. Ma questa volta i medici avevano “la scusa pronta” giustificando l’evento infettivo con il livello minimo di difese immunitarie e dicendo di non preoccuparmi. Anche se non del tutto convinta, continuai dunque con le terapie stabilite. A maggio del 2015 questa dispnea continuava ad essere una costante invariabile della mia quotidianità. Tanto da pensare: “Oddio, ci sono dieci scalini per arrivare al bagno, meglio che me la tenga”. Assurdo, ma era proprio così.
A questo punto i medici, sempre basiti da questo mio perseverare nel chiedere perché continuassi a stare così, quasi un po’ scocciati, decisero di rifare tutti gli esami previsti in una situazione del genere. Mi confermarono una pressione polmonare ancora elevata e il cuore affaticato, ma in compenso mi dissero che i polmoni stavano bene. Allora mi prescrissero un ulteriore farmaco da “provare”, che mi faceva stare peggio, poiché mi provocava non indifferenti effetti collaterali.
Testarda come sono, decisi di non rassegnarmi a quello che mi dicevano, perché in tutto questo c’era anche chi aveva il coraggio di dirmi che non era possibile che io stessi così, che, forse, la mia era una condizione psicologica che mi impediva di stare meglio. Della serie che io sarei stata così sciocca da condizionare il mio corpo a stare male, il che sarebbe “normale”, giusto? Comunque mi attivai e cercai su internet quali fossero in Italia i più importanti centri per l’IP e, grazie a un video che vidi sul sito AIPI sul Prof. Galiè, la mia attenzione cadde su Bologna (giugno 2015). Chiamai immediatamente il centro, mi spiegarono di inviare tutta la documentazione in mio possesso. Nel giro di qualche giorno mi avrebbero chiamato per fissare una visita ambulatoriale.
Così feci e dopo un’ora dall’invio del fax mi chiamò la Dott.ssa Manes, la quale mi chiese molto gentilmente se addirittura il venerdì di quella stessa settimana potevo farmi ricoverare.
“Cavolo” pensai “qui c’è qualcosa che non va”. Ed è stato proprio così. Appena entrai nella stanza insieme a lei c’era il Prof. Galiè. Quest’ultimo esordì dicendo “la diagnosi che fino ad ora vi è stata data non ci convince”. Rivolgendosi a mia madre continuò: “Elisa ha le arterie polmonari ostruite, una del tutto e l’altra poco ci manca”. In quel momento mi è crollato il mondo addosso. Davvero non volevo credere a quello che stavo sentendo. Com’era stato possibile? Dalla tac, spiegava il professore, era chiarissima l’ostruzione “E allora, come mai nessuno se n’è accorto fino ad oggi?” pensai.
Il lato positivo in tutto questo però c’era, per fortuna! Ossia che il mio caso risultava essere comunque operabile, cosa che non sempre avviene. Il professore decise di ricoverarmi per ripetere accuratamente tutti gli esami e mi spiegò anche che la mia storia clinica era stata analizzata solo dal punto di vista reumatologico e non cardiologico, come in realtà avrebbe dovuto essere.
Dopo aver ripetuto tutti gli esami e aver fatto anche un’angiografia polmonare, mai eseguita fino a quel momento, dopo appena una settimana di ricovero presso l’Ospedale S. Orsola-Malpighi di Bologna, venne confermato quanto sospettato all’ingresso: cuore polmonare cronico tromboembolico.
Passò anche l’estate del 2015, ovviamente senza aver fatto ferie in quanto la mia condizione fisica me lo impediva, tra dispnea insopportabile, sempre più intensa, e la paura di cosa mi riservava il futuro. Rimanevo comunque fiduciosa che prima o poi questa storia sarebbe stata solo un brutto ricordo.
Mentre scrivo ora queste righe, mancano solo pochi giorni al mio intervento di trombo endo-arterectomia polmonare e nonostante sia terrorizzata, non vedo l’ora di poter stare meglio. In fondo, credo di potermelo meritare.
Ho giurato che questa storia non finirà nell’oblio, che chi, come me, ha dovuto muoversi con le proprie gambe per poter arrivare alla giusta diagnosi, non smetta mai di combattere se non si è convinti di ciò che alcuni medici a volte vogliono farti credere. Penso che il mio racconto in qualche modo possa aiutare chi deve affrontare questo cammino come me.
Spero di potervi presto scrivere un’altra storia, dove racconterò questa volta di una nuova Elisa, rinata grazie a splendide persone come il Prof. Galiè, la Dott.ssa Manes e i loro collaboratori, che si sono presi in carico il mio caso e lo hanno seguito come dev’essere fatto.
Spero anche di non avere più “l’ansia” da prestazione quando mi si presenterà davanti una salita o una scalinata o un test di 6 minuti di marcia. Questa parte della mia vita sicuramente mi lascerà qualcosa dentro, mi lascerà la convinzione che ciò che il nostro corpo dice va sempre ascoltato, che non bisogna fermarsi al primo “no”, che bisogna avere molta pazienza e lasciare che arrivi il giorno dove tutto andrà meglio. E il mio giorno, spero, abbia l’indirizzo di casa mia!
di Elisa Taliento