Perché a me, perché ora?
Quei corridoi pieni di bambini, troppi bambini che a quella età dovrebbero solo pensare a giocare e a chiedere in continuazione un semplice gelato o un palloncino; invece stanno lì ad aspettare il loro turno per essere visitati. Chissà che idee si saranno fatti di quegli uomini col camice bianco e di quegli infermieri il cui desiderio sembrava solo di farci tanti buchi e riempire le interminabili “boccette di succo alla fragola”. Chissà cosa pensavo io. Provo a concentrarmi, ma per quanto abbia passato qualche giorno della mia infanzia, della mia adolescenza lì in quei corridoi stretti, l’unico mio pensiero va alla pizzetta della colazione come premio sacro dopo il prelievo e soprattutto a quei bambini ai quali ogni tanto scappava una lacrima di disperazione o di dolore.
D’altronde non potevo vivere con la preoccupazione, la malattia non si sarebbe mai dovuta svegliare, non sarei mai peggiorata.
Lo vivi come in un film, ma proprio come nei film la storia può cambiare all’improvviso. Ho vissuto fino ai 17 anni facendo qualsiasi attività fisica, amavo le gare di atletica e la ciclopedalata del 1 maggio, cantare ai concerti con tanti altri bambini, alle feste paesane e suonare il flauto traverso o il pianoforte. Ma ora mi rendo conto che il fiato non basta più, anche stare dietro agli altri ragazzi in palestra mentre fai solo il riscaldamento prepartita è difficile: rimani sempre ultima.
Ma fin quando il corpo non è al limite tutte le cose che accadono sembrano banali: ti senti stanca fisicamente, lenta, gonfia, compaiono tanti di quei microscopici problemi che non sai più a chi devi rivolgerti per avere una risposta. Non esiste un medico per tutto?
Eppure solo dopo che “lei” dice basta è ora di fermarsi, è allora che riunisci tutti i pezzi del puzzle. I numerosi svenimenti e mancamenti ipoglicemici o ipopressori (come li chiamavano) che durano da almeno due anni ti costringono quasi a sottoscrivere un abbonamento col pronto soccorso, facevano parte del pacchetto.
Indimenticabile quella volta, l’11 gennaio 2011, il giorno prima del mio compleanno, nel fare una scalinata mi sembrava quasi di scalare una montagna, eppure la scusa era la pizzetta: “Non posso mangiare e camminare contemporaneamente!” dissi alla mia mamma in seguito alla sua riflessione preoccupata nel vedermi troppo lenta in confronto alla sua camminata.
O quel giorno in cui per andare al supermercato mi dovetti fermare troppe volte su quel brevissimo tratto di strada. “Sono stanca, forse sto facendo troppo” mi dicevo, d’altronde ero super impegnata con tante attività e impegni.
Ma anche l’abbonamento col pronto soccorso doveva avere una fine; è così che accadde in quel fine settembre 2012.
Pochi passi e ho il fiatone, un dolore al petto come se due lastre mi stessero schiacciando, sono stanca e non ho corso, non ho fatto chilometri, non riesco nemmeno più a camminare, troppi capogiri e sono obbligata a fermarmi. “Marika fermati, riposati, prendi fiato” mi dico, e così faccio!
Riprendo a camminare, uno, due, tre passi, le gambe si fanno molli, il cuore va a mille, gira tutto, non vedo più niente, è il vuoto totale. “Mary, Mary, aiutooooo, aiutatemi”, è dalle urla che mi accorgo che sono svenuta.
“Un’altra volta, non è possibile! Cosa c’è che non va? Ormai va avanti da tempo, non da mesi, ma da anni”, mi dico.
Sento un’enorme stanchezza, mi addormento ovunque e a qualsiasi ora, continui affanni in piccoli gesti che sono sempre stati banali per me e per tutti; è possibile che anche vestirmi ora sia un’impresa? Gesti importanti come salire le scale e mangiare sono difficili, continui svenimenti, a casa, in strada, abbassamenti di pressione senza fine e un senso di oppressione al petto con fitte continue che mi tolgono il respiro.
Ormai le inutili corse in ospedale o le infinite visite da specialisti di ogni tipo durano da troppo tempo, per poi sentirsi ripetere sempre le stesse cose: “Non c’è nulla, non è ritenzione idrica, è solo cellulite ed è normalissimo in una ragazza di 24 anni, si tratta di sindrome vaso vagale, il suo livello di sopportazione del dolore è limitato, è un inizio di depressione causata dall’alta insoddisfazione della vita, le prescrivo uno psicofarmaco, l’aiuterà”.
Amici e parenti sbalorditi: “Una ragazza di poco più di vent’anni non può essere così svogliata!” Non può essere normale! Credetemi quando vi dico che poteva essere tutto, tranne la voglia di non vivere; sono sempre stata una ragazza impegnata in tante attività, tra cui anche stare in compagnia, non sono una persona dormigliona e tutta questa situazione no, non poteva essere normale.
Ma per quanto tempo ancora poteva resistere il mio corpo? A ottobre 2012, dopo svariate corse al pronto soccorso, venni ricoverata a Sassari per sospetti calcoli renali e febbre alta che persisteva. Dopo qualche giorno però i medici si resero conto che la situazione era più importante: “Ipertensione polmonare in embolia polmonare in corso con scompenso cardiaco” mi dissero e aggiunsero: “Non muoverti dal letto, la situazione è delicata”.
Uno pensa: “Finalmente mi daranno la terapia giusta e ho risolto, starò meglio”. Invece una banalissima passeggiata di pochi metri era ancora un’impresa, mi dovevo fermare in continuazione. Così in quel fortunato 27 dicembre, grazie al sesto senso della mia meravigliosa famiglia e a un medico preparatissimo mi ricoverarono con urgenza in Cardiologia a Cagliari dove mi diagnosticarono l’ipertensione arteriosa polmonare di grado severo. Lo spavento fu veramente tanto, non capii nemmeno che si trattava di una malattia vera e propria, non ne avevo mai sentito parlare; dissero alla mia famiglia che dovevo subire un trapianto, mi venne prescritto il primo farmaco, che pian piano migliorò, almeno un pochino, la situazione.
In realtà con questa diagnosi avrei dovuto finire le corse in ospedale, ma l’ipertensione polmonare nel mio caso era stata causata da una malattia autoimmune del connettivo, perciò con tanta tanta fatica, a causa delle difficoltà di diagnosticare questo tipo di malattia, arrivai anche a scoprire di avere un overlap di malattie autoimmuni (una sovrapposizione tra sindrome di Sjogren e sclerosi sistemica).
Una malattia ti cambia la vita. Solo sapere che c’è qualcosa nel tuo corpo in più rispetto a prima ti cambia tutto, il modo di vivere, di vedere le cose, te stessa. Devi riuscire ad accettarti così: nuova, come se tu fossi un’altra persona. Ti scombussola tutto e finché non riesci a trovare un equilibrio sei confusa, ti riempi di domande a cui non puoi dare risposta, almeno a parte di esse. Perché a me, perché ora, a questa età? Una malattia non ha solo un nome, si fa sentire, la senti presente in te e con te, vedi i cambiamenti, i minimi peggioramenti, anche in un affanno in più trovi il suo significato, ti rendi conto che per quanto poi tu sei sempre la stessa, il tuo corpo in parte è cambiato. Un giorno correvi come una gazzella e il giorno dopo non puoi nemmeno confrontarti a una lumaca. Solo un affanno in più, una fitta in più che ti toglie il respiro, e ti accorgi che sta succedendo di nuovo, perché ormai hai imparato a conoscere il tuo corpo e le paure ricominciano, forse anche più forti di prima perché ora sai a cosa vai incontro. Si, sarebbe accaduto così, se non ci fossero i tuoi medici, i tuoi angeli, pronti a indagare e a tranquillizzarti se ce ne fosse il bisogno. È lì, a Bologna, che corri quando rimani senza fiato. È lì che sono corsa per la prima volta nel 2013 quando i dubbi e le domande erano troppo forti per rimanere a casa ad aspettare, è lì che ogni volta riconoscono un peggioramento, come a marzo di un anno fa. Fidarsi, pensare di essere nelle mani giuste, nel posto giusto, ti dà una tranquillità infinita, e non è poco.
È così che inizi pian piano a trovare quell’equilibrio che ti serve per andare avanti, per combattere, per vivere ogni giorno con tutte le limitazioni che una malattia ti può portare. È vero, ora inizi a notare ogni cosa, ogni difficoltà che incontri anche solo in un’uscita con gli amici; se decidono di andare al mare, in montagna, o in centro ti devi accertare che ogni luogo e situazione siano adatti a te, che non ci siano troppe salite, o che ci siano parcheggi vicini, o se c’è da stare troppo tempo in piedi, o in viaggio. Ti accorgi che se vai a fare la spesa, costringi la mamma, o una nonna, una zia a prendere i pesi. Non puoi di certo far le cose da sola, come pulir casa, prendere un aereo. E ti senti morire quando vedi gli altri che ti guardano incredula, come se fossi tu a decidere, a costringere gli altri ad aiutarti e a non voler far nulla. Per non parlare delle tante battute a riguardo. Ed è facile inizialmente arrenderti e non uscire, smettere di fare, qualsiasi cosa essa sia. Ma poi… sì, poi trovi quell’equilibrio giusto che ti serve per darti la carica, la forza per andare avanti, capisci che ora non sei più sola, ora siamo in due, in tre, in quattro, perché le malattie diventano un tutt’uno con te. Ti rendi conto che nulla è impossibile, se lo vuoi, un giorno sei stanca e ti riposi, si può pulire in più tempi, una piccola passeggiata si può fare con tante soste, e anche se ci metti più tempo che importa? Ci sono i tuoi cari, la tua meravigliosa famiglia, gli amici nuovi e di sempre, i tantissimi amici AIPI, perché senza di loro e il loro aiuto sarebbe impossibile riuscire a fare.
Non è tutto rose e fiori, è vero, le difficoltà che si incontrano ogni giorno sono tante, troppe, per non parlare della burocrazia per tutte le pratiche, impossibili da gestire. E allora ti fermi, piangi, prendi fiato, piangi, riprendi fiato, e poi di nuovo…
Poi però ti accorgi che sono passati due anni, che sembra ieri, ma che da quell’indimenticabile giorno la tua vita si è stravolta, in bene e in male è cambiato tutto, proprio tutto, soprattutto tu, il modo di veder le cose, di vivere ogni singola cosa come se fosse la più bella emozione, occasione che potesse mai capitarti. Ci saranno ancora tanti traguardi, pianti, ostacoli e limitazioni da superare; non ci saranno certezze assolute, ma di una cosa sono certa: gli obiettivi non sono cambiati e non cambieranno ora e nemmeno in futuro: cercare di vivere al meglio, col sorriso!
Vivo, vivo con diverse malattie, con i piccoli cambiamenti che pian piano si fanno sentire nel mio corpo, con i dolori, le limitazioni, i ricoveri mensili, i tanti farmaci, con le mie paure; vivo studiando, fotografando, cucinando, “correndo” mentalmente, perché nonostante la malattia voglio “correre” per raggiungere i miei obiettivi, i miei traguardi e le mie passioni. E io vi assicuro, mi sento di aver già vinto…
di Marika Gattus