I polmoni degli altri
Normalmente gli organi delle altre persone non ci riguardano: prendiamo in considerazione la persona nel suo insieme, non i sui “pezzi”. Nel mio caso, i polmoni della mia migliore amica sono un soggetto di grandissima attenzione. Infatti, “la mia migliore amica è stata trapiantata”. Non sono un’italianista, ma questa proposizione, lasciatemelo dire, è proprio un obbrobrio. Ho sempre solo trapiantato piante e quindi la frase mi ricorda una scena analoga al trapianto delle mandragole nel primo film di Harry Potter. Gli apprendisti maghetti agguantavano per il collo le piante di mandragola – nella mia mente con il viso di Pisana – e con uno strattone le tiravano strepitanti fuori dal vaso, per poi sistemarle in uno più grande.
Tutt’al più per gli esseri umani si dice che la tal persona, per esempio un piemontese, si è trapiantato a Roma, intendendo che la persona si è o è stata sradicato dal suo paese di origine e si è stabilito permanentemente altrove. Si tratta di un uso riflessivo del verbo, non di un passivo applicato all’oggetto trapiantato – i polmoni – ma al soggetto – Pisana.
In seconda elementare, infatti, abbiamo tutti fatto l’analisi logica e imparato che le forme attive dei verbi transitivi reggono un oggetto, e che quest’ultimo diventa il soggetto della forma passiva, quindi: “a Pisana sono stati trapiantati i polmoni”. Ecco in agguato il colpo di mano: si lascia cadere il soggetto e il dativo, roba troppo complicata; e, per perversa correttezza, si concorda il verbo con il nome. Voilà: “Pisana è stata trapiantata”.
Perché non dire “Pisana ha subito il trapianto dei polmoni” oppure “a Pisana è stato effettuato il trapianto dei polmoni” – dopotutto l’italiano preferisce i sostantivi ai verbi – quest’ultimi sono troppo concreti. Preferisce anche l’espressione forbita e spesso contorta a quella semplice e lineare – perché fa colto.
Questo scritto, tuttavia, non è una dissertazione lessicale o grammaticale. È il racconto di un’amicizia a tre: lei, io e i suoi polmoni, che si sono rivelati i meno affidabili e i più corteggiati. Quindi comincerò dall’inizio.
Ho conosciuto Pisana nel gennaio del 1981 quando eravamo al primo impiego al Parlamento Europeo a Bruxelles. Al di fuori del lavoro, caratterizzato da innumerevoli tazze di tè e trasferte a Strasburgo, Pisana andava alle feste, mentre io facevo degli sport violenti. Inframmezzato a tutto ciò si parlava di politica, di musica, di libri. In particolare, per il mio compleanno, il 3 maggio del 1981, mi regalò il romanzo “Oblómov” di Ivan Gončarov, con questa dedica: “Da Oblómov all’amico Stolz”. Il romanzo narra infatti dell’amicizia di Oblómov, molto russo, fatalista e languido, e Stolz, molto tedesco, pragmatico e attivo (vedi box pagina seguente). In casa i fratelli più giovani, adoranti ma feroci, chiamavano Pisana “l’impiastro”.
Con il senno di poi quella mancanza di energia si rivelò essere sintomo in sordina della malattia, dei suoi polmoni che insistevano su di un ruolo di primo piano. Questi, indisponenti, ne ebbero abbastanza al momento meno opportuno – cioè in quel momento che dovrebbe essere pieno di gioia: la nascita del primo figlio. Perdonatemi il linguaggio poco appropriato, ma, nonostante gli sforzi di Pisana a educarmi, non domino il vocabolario medico: quando i polmoni di Pisana hanno dovuto far girare non solo lei, ma il piccolo essere che portava in grembo, è successo di tutto e di più: mi indispettii quando suo marito si dimostrò reticente a dirmi cosa era accaduto. Per di più ero lontana e mi sentivo impotente. Mentre la bambina, Margherita, era un micetto tutto tondo che cresceva sano e robusto, i polmoni di Pisana non vollero più girare bene, anzi perdevano colpi, nonostante tutta la volontà impegnata a vivere una vita normale.
Nell’estate del 1997, credo, un amico di famiglia medico le fece vedere un saggio sulla possibilità dei malati d’ipertensione polmonare di migliorare le proprie prospettive di vita per il tramite di un trapianto. Ho immediatamente scartato l’ipotesi come troppo sperimentale, anzi fantascientifica. Cresciuta in una famiglia in cui ammalarsi non era previsto, mi rifiutavo di prendere atto della gravità della situazione. Certamente, pensavo, non sarà necessario arrivare a questi eccessi?
Quando però Pisana iniziò a non riuscire a far le scale e a fare “glub”, ho cominciato a preoccuparmi: non era più il solito languore à la russe o il desiderio della sdraio al sole, ora sputava sangue. Si dice “il tal lavoro mi ha fatto sputar sangue”: quell’espressione popolare evoca inenarrabili fatiche imposte a corpi rachitici e emaciati dalle febbre dei tempi andati. Sembrava un’esagerazione anacronistica, ma invece non lo era. E a ogni “glub” aumentava l’allarme.
Si arrivò al dunque nel 2002 ed io ero affaccendata con le complicazioni della mia esistenza. Ma quando fui interpellata perché nella staffetta di fratelli, madre e amici che stavano vicini al letto di Pisana da poco operata ci fu un buco, accorsi. Il peggio era già passato: era iniziata la convalescenza, ma con qualche difficoltà e tanta fisioterapia.
La situazione prese una piega migliore quando fu ricoverata alla Confraternität di Vienna, dove la raggiunsi. Nessuno sbatteva la porta di vetro della sala da pranzo, né impacchettava Pisana in coperte su di un balcone prospiciente la vallata*. In quelle giornate radiose di un maggio pacifico, il soggiorno alla Confraternität, radicata nell’opera sociale settecentesca, con il suo decoro monacale, in una città suggestiva in cui eravamo finalmente insieme senza mariti, figli e impegni domestici o professionali fu per me come essere su una “montagna incantata”.
Alla sua conclusione, tanto per dimostrare che talvolta la realtà è migliore delle vicende dei romanzi, non ci fu il fango delle trincee, né, mutata mutandis, la realizzazione di statistiche catastrofiche. Infatti, le statistiche a quel tempo asserivano che il 30% di coloro, che subivano un trapianto polmonare non sopravvivevano il primo anno dopo il trapianto. Ma la statistica è una media che annulla l’individuo con le sue peculiarità e Pisana l’ha provato.
Inizialmente andavo a trovare Pisana circa una volta al mese, vista la fragilità delle sue condizioni e l’angoscia indotta dalle statistiche. Le visite poi si sono diradate: i nuovi polmoni con le dovute attenzioni assolvevano al loro ruolo senza troppi desideri di protagonismo. Quando però temo che Pisana chieda loro troppo la supplico burberamente di risparmiarli.
Infatti Pisana è diventata il mio Stolz. Pisana non solo ha cambiato “il pezzo”, ma ha cambiato vita: nuova città, nuova attività e nuovo compagno di vita, l’unica costante Margherita, che dava il suo bel da fare, ma mai quanto l’AIPI e successivamente PHA Europe.
Mentre languidamente rovisto tra carte ottocentesche, proteggendomi dal mondo esterno dietro lo schermo del mio computer, e mi lamento che fare il pendolare tra Londra e Torino sia faticoso, Pisana è impegnata nelle sue attivissime associazioni e viaggia come una trottola: un giorno è a Basilea per una presentazione a una casa farmaceutica, o forse era a Barcellona per un convegno di cardiologia? Poi schizza a Vienna per l’associazione europea, a Roma per un corso di formazione e a Bologna per l’assemblea dell’AIPI. E questa dovrebbe essere una persona invalida? Un tale regime stroncherebbe anche un atleta!
I frequenti spostamenti non interferiscono con la nostra amicizia, sia perché un ritaglio di tempo per sentirsi si trova, sia perché talvolta la portano a Londra, dove abito.
Quello che interferiva con la nostra amicizia erano le interminabili sessioni editoriali per la rivista dell’associazione durante le quali mi veniva negato accesso. Non c’erano santi, quando Pisana era in confabulazioni con Giacinta, la graphic designer, a cui l’associazione deve una rivista sempre più curata, non le si poteva parlare per giorni interi. Subdolamente ho quindi prima suggerito, poi contribuito all’acquisto di programmi di software che facilitino la redazione della rivista a distanza. Questi hanno effettivamente ridotto sia la lunghezza, sia la frequenza delle sessioni, con mio grande sollievo!
Certamente la malattia ha creato una solidarietà tra noi ancora più forte di quello che era prima. Per me inoltre vedere che le qualità e abilità di Pisana hanno trovato uno sbocco così utile e generoso è fonte di orgoglio, anche se preferirei che avesse un paio di vecchi polmoni funzionanti, benchè un po’ stanchi dopo sessant’anni di servizio, anziché questi nuovi di zecca che bisogna trattare come delle principessine sul pisello per evitare che scioperino. Diamo però loro il dovuto, come terzi in un rapporto fanno molto comodo anziché scomodo!
Note
* Si fa qui riferimento al romanzo di Thomas Mann, “La montagna incantata”, scritto nel 1924 e ambientato a Davos, nelle Alpi svizzere, in uno sanatorio per la cura delle malattie polmonari, tra cui la tubercolosi. All’epoca si pensava infatti che l’aria secca e pura dell’alta montagna potesse essere benefica per i malati, che passavano all’aperto varie ore ogni giorno, avvolti in coperte su delle sdraio, anche in pieno inverno.